Il Paese dei depressi, l’unica cura è la democrazia
Non si indignano per i suicidi dovuti alla crisi, che dal 2008 al 2010 erano già aumentati del 24,6% e che da allora si sono impennati. Si infervorano perché qualcuno afferma con chiarezza che la responsabilità di questo eccidio non è del destino cinico e baro. E' di ben precise politiche messe in opera dalla classe dirigente italiana ed europea. E' di chi non affronta la crisi cercando di creare sviluppo e nuovi posti di lavoro ma introduce i licenziamenti facili smantellando l'art. 18 e così diffonde ulteriormente depressione, disagio, scoramento, perdita di fiducia.
L'esistenza, qui e ora, oggi in Italia, di uno stato di depressione profonda, diffuso da nord a sud, comune a tutte le attività lavorative, non è un'opinione. E' un fatto. Lo attesta l'uso dilagante dei farmaci delegati a contrastare il disagio psichico. Lo confermano gli “addetti ai lavori” principali, cioè i medici di base e quelli aziendali.
Personalmente, la situazione italiana mi ricorda quella del Giappone a metà degli anni '90 assai più che non quella, spesso citata e quasi sempre a sproposito, della Grecia. Il Giappone di allora, dopo una fase di impetuosa e apparentemente irresistibile avanzata economica, viveva una crisi che toccava i settori portanti della sua produzione sia tradizionale che innovativa, dall'automobile all'informatica e all'elettronica.
Ricordo che allora i sindacati e gli imprenditori giapponesi mi descrissero con grandissimo allarme il disagio psichico che stava pervadendo il Paese, la crescita esponenziale dei casi di violenza contro se stessi, dei suicidi e dei tentati suicidi, le situazioni di disagio psichico estremo che si riscontravano tra i lavoratori e gli imprenditori. Da quella crisi, il Giappone non si sarebbe mai ripreso del tutto.
Molto più che non un precipizio sul modello di quello greco, la minaccia è quella di finire in una situazione identica a quella del Giappone di allora. L'Italia di oggi rischia di cadere cioè in una lenta e irreversibile spirale depressiva.
Il governo Monti non solo non sta facendo nulla per fronteggiare questa degenerazione. La sta incentivando e spesso determinando. Se il governo, dovendo chiedere sacrifici enormi alla popolazione, gioca solo nella metà campo dei lavoratori e delle imprese oneste, mentre considera intoccabili le banche, i corrotti e gli esportatori di capitali all'estero, diffonde per forza un senso di scoramento, sfiducia e disperazione. Se a questo si aggiungono le intollerabili e ormai continue derisioni che ministri come la Fornero e il presidente del consiglio riservano alla stessa gente cui hanno accollato per intero i costi della crisi, l'ondata di suicidi e la crescente diffusione dei farmaci diventa ben comprensibile.
C'è un solo antidoto a questa malattia sociale: la partecipazione. E' quando un popolo smette di pensarsi padrone del proprio destino, quando si sente in balìa di forze oscure e ostili che non può in alcun modo contrastare, sulle quali non ha possibilità di incidere, che la disperazione trionfa. La crisi economica e quella della democrazia camminano con lo stesso passo. La depressione generalizzata è il frutto del loro turpe incontro. L'esito di un simile processo di sfiducia, smarrimento e perdita di speranza non potrà che essere, alla fine, una qualche forma di dittatura.
Solo la restituzione al popolo del potere di scegliere la proprie sorti può contrastare e battere la condizione tragica che Di Pietro ha denunciato in Parlamento. Solo elezioni nelle quali i cittadini, e non le oligarchie finanziarie o tecnocratiche, siano chiamati a scegliere tra opzioni diverse limpidamente e chiaramente esposte. Solo un ritorno pieno e sostanziale alla democrazia.
Pubblicato sul settimanale Gli Altri di venerdì 13 aprile
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